L’onda lunga della crisi in Sudan e le prospettive nel “Mediterraneo allargato”
Dal 15 aprile il Sudan è diventato un campo di battaglia tra le due principali forze di sicurezza: le Forze Armate Sudanesi (SAF) rimaste fedeli ad Abdel Fattah al-Burhan, capo della giunta militare e presidente de facto del Paese, e le Rapid Support Forces (RSF) guidate dal numero due del Consiglio di transizione, il generale Mohamed Hamdan “Hemedti” Dagalo. Nonostante i molteplici tentativi di «tregua» concordati tra l’esercito regolare e i paramilitari, e le richieste internazionali di un immediato «cessate il fuoco» per garantire l’evacuazione dei civili o l’arrivo degli aiuti umanitari, nella capitale Khartoum e in molte zone del Paese la spirale di violenza peggiora di giorno in giorno. Mentre si contano più di un migliaio di vittime e un milione di sfollati, la crisi politica in corso aumenta il rischio di potenziali ricadute oltre i confini del Sudan, che rimane il terzo Paese più grande dell’Africa[1], impattando sulla sicurezza e la stabilità di una regione con una configurazione geopolitica ancora in fieri qual è il Mediterraneo allargato.
L’escalation dei combattimenti, innescata dalla resa dei conti tra i due generali che hanno ordito il putsch del 2021 ai danni dell’esecutivo civile del premier Abdallah Hamdok, segnala un grave stallo della «roadmap to democracy» avviata nel 2019 con il rovesciamento del regime islamista di Omar al-Bashir – al potere fin dal 1989 – giunto al minimo della sua popolarità. L’equilibrio di potere tra SAF e RSF, eredità di un’annosa e cruenta dittatura del Fronte islamico nazionale, giustificato dalla comune avversione per la transizione democratica che si è mossa per smantellare la redditizia rete di imprese costruita sotto il dominio di al-Bashir e controllata dai militari[2], si è infranto contro la riforma dell’apparato di sicurezza che vorrebbe integrare la versione aggiornata dei Janjaweed[3] nei ranghi dell’esercito sudanese entro due anni.
Sullo sfondo dei combattimenti scaturiti dalla competizione tra signori della guerra locali si innestano le crescenti preoccupazioni dei Paesi confinanti nonché, in modo fortemente contraddittorio, gli interessi della cosiddetta “Troika Araba”, composta dai poteri regionali di Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (EAU).
Nel corso della sua storia, il quadrante MENA – considerato qui nella sua accezione “allargata” – è stato caratterizzato da numerose e rilevanti tensioni i cui risvolti (geopolitici, economici e strategici) vanno tradizionalmente ben oltre l’aggravarsi delle divisioni interne ai singoli Paesi dell’area. Nello specifico, il Sudan costituisce uno Stato cerniera tra le subregioni di Maghreb, Sahel e Penisola arabica, ponte fondamentale tra Africa e Medio Oriente attraverso lo snodo decisivo del Mar Rosso. In primo luogo, questo fa sì che la crisi armata rappresenti una minaccia sostanziale per i Paesi del Corno d’Africa alle prese con un arco di instabilità (socioeconomica, politica e climatica) che coinvolge l’intera zona, dall’eventualità di un nuovo conflitto tra Eritrea ed Etiopia al precario “New Normal” della Somalia stretta tra crisi alimentare e la minaccia jihadista degli al-Shabaab. Inoltre, se si considera il fantasma della guerra civile che oggi aleggia su Khartoum e sul Darfur (entrambe a maggioranza arabo-musulmana) rischiando di estendersi alla giovane nazione del Sud Sudan (a prevalenza subsahariana e cristiana), con i problemi già attuali (in primis, quello dei rifugiati) nonché le ricadute potenziali (per esempio, dell’export petrolifero che transita per il Nord), sono serie le preoccupazioni che il corso degli eventi in Sudan possa innescare l’internazionalizzazione dello scontro, data oltretutto la dipendenza da attori stranieri (per finanziamenti e forniture belliche) delle SAF quanto delle RSF.
In questo quadro, non è da escludere un intervento dell’Egitto, intenzionato a scongiurare il rischio di un’“altra Libia”[4], vale a dire una guerra civile – apparentemente interminabile – combattuta per procura e “produttrice” di rifugiati. Un nuovo conflitto di confine, questa volta nella regione dell’Africa orientale, considerata dal Cairo il suo “giardino di casa”, fa temere anche per la navigazione nel Canale di Suez, complicando la disputa con l’Etiopia circa la controversa gestione della Diga del Gran Rinascimento (GERD) sul fiume Nilo. Il presidente Al-Sisi, che negli ultimi anni ha coltivato stretti legami con il generale al-Burhan, considera, infatti, la GERD una minaccia diretta alla sicurezza nazionale egiziana. Al pari del suo vicino meridionale, Il Cairo vedrebbe calare la disponibilità di acqua dolce a causa della stessa diga che, nella prospettiva del governo di Addis Abeba rappresenta il volano per lo sviluppo della nazione. L’Egitto, quindi, potrebbe avere un interesse ulteriore ad indirizzare l’esito della crisi in Sudan per garantirsi l’ascendente sul prossimo regime o, più semplicemente, per evitare che ad acquisirlo sia, in questo quadro, il rivale etiope.
Al di là del Mar Rosso, appare altrettanto improbabile che le forze di sicurezza sudanesi coinvolte nel conflitto possano condurre le operazioni in maniera del tutto indipendente. All’indomani della secessione della regione petrolifera del Sud Sudan, con il referendum del 2011, Khartoum è scivolata inevitabilmente nell’orbita delle monarchie del Golfo. In cambio del ricorso alle RSF del generale Hemedti negli scenari di crisi mediorientale in Yemen e Libia, i regni arabi di Riyadh e Abu Dhabi hanno fornito supporto militare, politico e finanziario all’allora presidente al-Bashir, finendo di fatto con il manovrare, ormai da oltre un decennio, gli eventi politici e le sorti dei signori della guerra al potere in Sudan allo scopo dichiarato di promuovere la «stabilità regionale»[5].
A partire dal golpe seguito alle proteste popolari del 2019, il dossier sudanese ha previsto il rinnovato sostegno dei due principali Stati del Golfo ad un regime autoritario centralizzato guidato da una leadership militare “laica”. L’immediato riconoscimento del Consiglio di transizione ha incoraggiato la repressione dei manifestanti da parte dei due generali, ostacolato le istanze rivoluzionarie di governo civile e legittimato l’emergere di un delicato accordo di power-sharing tra forze regolari e paramilitari, riproducendo il “paradigma al-Bashir”. Tuttavia, il fatto che oggi l’Arabia Saudita miri a stabilizzare una forza militare unita sotto l’ombrello delle SAF per tutelare l’agenda di Vision 2030 e proporsi come guida della transizione energetica, non esclude che gli EAU, i quali vedono già rafforzata la propria rete di influenza (commerciale, diplomatica e militare) sul Mar Rosso – avendo svolto oltretutto un ruolo chiave nello sviluppo delle RSF – possano far valere il loro peso dominante nella risoluzione del conflitto in atto nel grande Stato africano[6].
Si vuole sottolineare, qui, come i Paesi della “Troika Araba” svolgano anche il ruolo di intermediari regionali per le superpotenze globali di Stati Uniti, Cina e Russia. Ad ogni livello, il Sudan appare semplicemente “too big to fail” e troppo strategicamente situato per collassare.
Per Washington la posta in gioco è alta. L’eventualità di un’escalation della crisi armata in guerra civile rappresenta, infatti, una minaccia sostanziale non solo per l’economia della regione, ma anche per la possibilità che il Sudan diventi nuovamente un santuario per il terrorismo internazionale[7], ostacolando gli sforzi in corso per assicurare la stabilità nell’area del Sahel.
Per la diplomazia di Pechino, accomunata agli USA dalla preoccupazione sulla navigabilità del Mar Rosso (l’asse marittimo della “Nuova via della seta”, insieme al Canale di Suez) a fini commerciali, la guerriglia sudanese potrebbe rappresentare un ulteriore banco di prova in termini di soft power dopo la firma dell’accordo di mediazione tra Iran e Arabia Saudita.
Nella visione di Mosca, il conflitto che ha polarizzato il Sudan è un tassello geostrategicamente importante per le sorti delle miniere d’oro in Darfur, di cui il Paese è terzo produttore africano[8]. L’“espansionismo russo” in Africa via milizia Wagner – il “fil rouge” che lega Kiev al Mediterraneo allargato – ha favorito il generale Hemedti, implementando l’addestramento delle RSF che ne controllano l’estrazione, grazie alla rinnovata centralità delle riserve aurifere per rimpinguare le casse del Cremlino in concomitanza con l’invasione dell’Ucraina.
Grandi assenti risultano, fino ad ora, Nazioni Uniti e Unione Europea. Mentre l’ONU si prepara all’esodo di 800 mila sfollati e avverte del pericolo crescente di “etnicizzazione” degli scontri, sul fronte dell’emergenza umanitaria l’UE assiste all’evolversi del conflitto con la fibrillazione con cui si guarda ad una bomba ad orologeria pronta a deflagrare, con il rischio annesso che centinaia di migliaia di migranti si riversino lungo le rotte che si proiettano verso il Mediterraneo. Il Sudan, infatti, rappresenta uno snodo centrale delle migrazioni; la sua capitale, Khartoum, è tra i principali hub dei flussi originati dal Corno d’Africa e diretti in Europa prevalentemente attraverso la Libia e, occasionalmente, l’Egitto.
La crisi armata in corso nel grande Paese africano ha inevitabilmente una traiettoria ancora tutta da definire. L’eredità di una storia politica instabile rende l’attuale conflitto suscettibile di evolvere in una prolungata guerra civile che difficilmente si risolverà con il successo militare di una delle due forze in campo, lasciando presagire una proliferazione esterna delle tensioni a seguito del perdurare dei combattimenti. Nonostante alcune potenze regionali e gli Stati confinanti non abbiano particolare interesse alla deflagrazione del conflitto aperto in Sudan, sembra piuttosto chiaro come gli interessi della “Troika Araba” – senza dimenticare quelli dei suoi alleati internazionali – siano troppo eterogenei per portare ad un’efficace e coerente pressione politica sui contendenti che, nella migliore delle ipotesi, condurrebbe ad una spartizione del potere e delle risorse all’interno di un nuovo regime militare a scapito della transizione politica verso la democrazia.
[1] Il Sudan è stato il Paese più grande per estensione in Africa nonché all’interno della Lega Araba, fino al 2011, quando il Sud Sudan ha dichiarato la propria indipendenza dal governo di Khartoum.
[2] McDoom, Omar Shahabudin. Sudan: To break the cycle of violence, end the kleptocracy. Al Jazeera. 16 maggio 2023. Ultima consultazione il 23 maggio 2023. «https://www.aljazeera.com/opinions/2023/5/16/sudan-to-break-the-cycle-of-violence-end-the-kleptocracy»
[3] Letteralmente “demoni a cavallo”, i Janjaweed sono stati una milizia filogovernativa impegnata fin dal 2002, anno della loro istituzione, nella guerra civile del Darfur dove sono accusati per crimini di guerra dalla Corte penale internazionale dell’Aia. Nel 2013, le forze informali dei Janjaweed sono state istituzionalizzate nelle Rapid Support Forces (RSF).
[4] Parasiliti, Andrew. Can diplomacy end the fighting in Sudan? Al-Monitor. 21 aprile 2023. Ultima consultazione il 25 maggio 2023. «https://www.al-monitor.com/originals/2023/04/can-diplomacy-end-fighting-sudan»
[5] Gallopin, Jean-Baptiste. The Great Game of the UAE and Saudi Arabia in Sudan. Project on Middle East Political Science – POMEPS. s.d. Ultima consultazione il 23 maggio 2023. «https://pomeps.org/the-great-game-of-the-uae-and-saudi-arabia-in-sudan».
[6] Krieg, Andreas. Gold, arms and mercenaries: On UAE’s shadowy networks in Sudan. 1 maggio 2023. Middle East Eye – MEE. Ultima consultazione il 25 maggio 2023. «https://www.middleeasteye.net/opinion/uae-sudan-shadowy-networks-cold-arms-mercenaries».
[7] Vale la pena ricordare che Osama bin Laden, prima della sua espulsione nel 1996, abbia trascorso un periodo di cinque anni in Sudan dove ha fondato al-Qaeda, l’organizzazione terroristica responsabile degli attacchi dell’11 settembre 2001 che ha riscosso un’influenza planetaria.
[8] McGregor, Andrew. Gold, Arms, and Islam: Understanding the Conflict in Sudan. 28 aprile 2023. Terrorism Monitor Vol.21 n°9 in The James Town Foundation. Ultima consultazione il 25 maggio 2023. «https://jamestown.org/program/gold-arms-and-islam-understanding-the-conflict-in-sudan/».