L’individuazione del dies a quo per la convalida del provvedimento d’urgenza che dispone il prelievo coattivo di campioni biologici
Cass., sez. VI, 13 dicembre 2021(dep. 16 marzo 2022), n. 885
Premessa
Con la pronuncia in commento, la sesta sezione della Corte di Cassazione, intervenuta in materia di prelievo coattivo di campioni biologici, affronta un tema particolarmente interessante ma che non gode, invero, di particolare appeal scientifico. La ricostruzione della dinamica processuale risulta determinante per poter verificare la correttezza della soluzione interpretativa offerta dalla giurisprudenza.
Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Palermo dichiarava inammissibile, perché tardiva, la richiesta di convalida del decreto motivato di prelievo coattivo di campione biologico su persona vivente avanzata dal p.m. Avverso il provvedimento, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo proponeva ricorso deducendo la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) c.p.p. in relazione all’art. 359 bis, comma 2, c.p.p.. In particolare, l’Ufficio di Procura censurava la decisione del Gip di ancorare la decorrenza del termine per la richiesta di convalida alla data di emissione del decreto d’urgenza, piuttosto che alla data di materiale esecuzione del prelievo, eseguito 3 giorni dopo. La Corte, condividendo le argomentazioni sostenute dalla Procura, accoglie il ricorso.
Il contesto normativo
Il prelievo coattivo di materiale biologico rappresenta, in maniera plastica, il più noto tra gli accertamenti corporali . Evidente appare il carattere di invasività dell’accertamento, potenzialmente idoneo a ledere diritti costituzionalmente garantiti. Il prelievo, infatti, mira a «a sottrarre dal corpo umano quel materiale (parte di tessuto o liquido organico) necessario per l’esecuzione delle ricerche o di analisi» . Dopo un lungo periodo di incertezza applicativa, determinata dalla pronuncia di illegittimità costituzionale dell’art. 224, comma 2, c.p.p. e seguita da una lacuna normativa che realizzò «un’ impasse assurdo e ingiustificato» , il legislatore è finalmente intervenuto offrendo una disciplina positiva dell’attività di acquisizione di campioni biologici.
La l. 30 giugno 2009, n. 85 ha introdotto nel tessuto normativo l’art. 224 bis c.p.p., relativo ai “provvedimenti del giudice per le perizie che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale” e l’art. 359 bis circa “il prelievo coattivo di campioni biologici su persone viventi”. La nuova fisionomia del prelievo biologico ha, tuttavia, lasciato inalterata la possibilità per la polizia giudiziaria di esperire l’attività di prelievo forzoso nei confronti dell’indagato, per finalità identificativa, ex art. 349, comma 2 bis, ma, recependo le critiche dottrinali, ha dall’altro soppresso la possibilità di esperire la medesima attività nei confronti dei terzi presenti sulla scena del crimine, inserita dalla legge del 2005 nell’art. 354, comma 3 ult. periodo c.p.p. .
Osservando la corposa disciplina contenuta nell’art. 224 bis, l’intervento normativo risulta ancorato a persuasivi canoni di “stretta necessità” e di “minima offensività”. Quanto al primo profilo, infatti, l’esperibilità dell’attività peritale è condizionata alla “assoluta indispensabilità per la prova dei fatti” e al “mancato consenso della persona da sottoporre all’esame del perito”. Sul piano del quomodo, il canone della minima offensività trova nella disciplina in questione diverse applicazioni normative. Si ascrivono ad esse, ad esempio, le regole di condotta che, ai sensi dell’art. 224 bis comma 5, impongono all’organo procedente, a parità di risultato, di adottare le tecniche meno invasive e di “eseguire le operazioni peritali nel rispetto della dignità e del pudore di chi vi è sottoposto”. Il sistema è ispirato alla “regola del mezzo più mite”, elaborata dalla dottrina costituzionalistica tedesca, che consente di superare il dissenso dell’interessato all’operazione ablativa soltanto nel rispetto dello stringente apparato di garanzie che circonda l’uso della forza e l’esecuzione del prelievo. L’assetto garantista e coerente alle coordinate costituzionali risulta completato dalla centralità attribuita all’organo giurisdizionale, il cui intervento, seppur elastico nelle forme e nelle cadenze temporali , risulta indefettibile.
I soggetti idonei a subire tale attività sono diversi: dall’indagato/imputato, ai terzi, adulti o minorenni, alla persona offesa sino ai parenti dell’imputato. L’ammissione del prelievo coattivo di soggetti non indagati né imputati reca in sé una pericolosa deriva, laddove apre alla diffusione degli screening di massa, fenomeno già realizzatosi in Inghilterra e progressivamente ampliatosi anche in Italia . Il timore può essere arginato, secondo parte della dottrina, valorizzando il presupposto dell’ “assoluta indisponibilità per la prova dei fatti” e dell’ “obbligo di fornire una motivazione più rigorosa, nella quale si dia conto delle ragioni che rendono essenziale il prelievo di materiale biologico di quella specifica persona i filtri in grado di evitare che possano essere disposti prelievi forzosi a tappeto” . Perché il requisito normativo dell’assoluta indispensabilità possa essere sufficiente ad arginare tale rischio, al pari di quanto già sostenuto in tema di intercettazioni , è indispensabile una prognosi favorevole sugli esiti positivi della ricerca. Per poter essere legittimo, dunque, ciascun prelievo coattivo non solo dovrebbe risultare ex ante assolutamente indispensabile, ma anche presentare in concreto una probabilità rilevante di risultare decisivo per la risoluzione della vicenda giudiziaria .
La disciplina è caratterizzata da diverse criticità. Il difetto più evidente si rinviene nell’incertezza dell’elenco degli atti coattivi che risultano consentiti e nel totale silenzio circa le modalità esecutive da adottare; invero, come si può notare anche dalla semplice lettura della stessa, la disposizione non soddisfa le istanze di tassatività e determinatezza che erano state suggerite dalla Corte costituzionale. L’art. 224 bis, al comma 1, menziona gli “atti idonei ad incidere sulla libertà personale, quali il prelievo di cappelli, di peli o di mucosa del cavo orale su persone viventi ai fini della determinazione del profilo del DNA o accertamenti medici”.
In riferimento al prelievo, la disposizione indica sia l’oggetto, ovvero i peli, capelli e saliva, sia la finalità, ovvero la determinazione del profilo del Dna; diversamente la locuzione “accertamenti medici” risulta eccessivamente generica, laddove risulta idonea ad includere operazioni consistenti sia in percezioni visive sia nella somministrazione di sostanze o nell’introduzione di strumenti all’interno del corpo di un individuo.
Il legislatore, oltre ad aver riconosciuto in positivo quali accertamenti coattivi è possibile esperire, pur con le perplessità già enunciate, ha indicato in negativo i limiti oltre i quali simili attività non possono essere compiute. Secondo il comma 4 dell’art. 224 bis, “non possono in alcun caso essere disposte operazioni che contrastano con espressi divieti posti dalla legge o che possono mettere in pericolo la vita, l’integrità fisica o la salute della persona o del nascituro, ovvero che, secondo la scienza medica, possono provocare sofferenze di non lieve entità”, mentre il comma 5 stabilisce che “ le operazioni peritali sono comunque eseguite nel rispetto della dignità e del pudore di chi vi è sottoposto. In ogni caso, a parità di risultato, sono prescelte le tecniche meno invasive”.
Tali previsioni, però, non dissolvono i dubbi anzi contribuiscono ad accentuarne la portata. La genericità della formula, che dovrebbe individuare i confini dell’accertamento medico, di fatti tradisce gli intenti, perché potrebbe alimentare interpretazioni difformi in merito alla gradualità, attualità e concretezza di tali rischi.
Il prelievo coattivo di campioni biologici
Il legislatore, consapevole della indispensabilità, nella prassi, di acquisire dati genetici già nella fase delle indagini preliminari, ha attribuito al pubblico ministero, ex art. 359 bis, la possibilità di chiedere al giudice il prelievo coattivo di campioni biologici. Anche questa disposizione non è esente da perplessità interpretative; il rinvio alle operazioni di cui all’art. 224 bis potrebbe estendere il novero delle attività esperibili nella fase delle indagini preliminari. Il rischio, però, è calmierato se si valorizza la rubrica della norma, che richiama esclusivamente “il prelievo coattivo di campioni biologici su persone viventi”, ed omette ogni riferimento alla controversa categoria degli accertamenti medici di cui all’art. 224 bis.
Nel rispetto delle condizioni previste dall’art. 13, comma 2, Cost., per le misure limitative della libertà personale, l’attività investigativa è subordinata ad un provvedimento di autorizzazione del giudice, in linea con la disciplina prevista per le intercettazioni.
Nei casi di urgenza, individuati nel grave ed irreparabile pregiudizio alle indagini derivante dal ritardo, il p.m. dispone lo svolgimento delle operazioni con decreto motivato, “provvedendo a disporre l’accompagnamento coattivo, qualora la persona da sottoporre alle operazioni non si presenti senza addurre un legittimo impedimento, ovvero l’esecuzione coattiva delle operazioni, se la persona comparsa rifiuta di sottoporvisi”. L’iter ordinario, che prevede la richiesta da parte del p.m. ed il vaglio giurisdizionale della stessa da parte del giudice, che autorizza, è invertito nelle ipotesi di urgenza. In tal caso, il pubblico ministero, entro le 48 ore successive “richiede al giudice per le indagini preliminari la convalida del decreto e dell’eventuale provvedimento di accompagnamento coattivo”. Il giudice deve provvedere con ordinanza, “al più presto e comunque entro le quarantotto ore successive, dandone avviso immediatamente al pubblico ministero e al difensore”.
Sebbene il dibattito interpretativo si sia concentrato principalmente sul profilo sanzionatorio, nel caso di specie rileva l’apparente silenzio normativo in merito al dies a quo di decorrenza del termine di 48 ore per la richiesta di convalida. Si avvicendano, infatti, due proposte interpretative: che il termine decorra dall’emissione del decreto motivato del pubblico ministero; dall’altro che esso decorra dall’effettiva esecuzione del prelievo da parte della polizia giudiziaria.
La questio iuris discende dal naturale e fisiologico intervallo temporale che intercorre tra il provvedimento d’urgenza del pm e l’esecuzione materiale del prelievo. Del resto, la disposizione non lascia spazio a interpretazioni diverse; ai sensi del comma 2, il decreto del p.m. deve contenere “i medesimi elementi previsti dal comma 2 dell’art. 224 bis”. Rilevano, in particolare, le lett. e) e f), secondo cui il provvedimento deve contenere, rispettivamente, “l’avviso che, in caso di mancata comparizione non dovuta a legittimo impedimento, potrà essere ordinato l’accompagnamento coattivo ai sensi del comma 6” e “l’indicazione del luogo, del giorno, e dell’ora stabiliti per il compimento dell’atto e delle modalità di compimento”.
L’iter argomentativo della Corte di Cassazione
Secondo la Corte, il termine di 48 ore per la richiesta di convalida decorre dall’effettivo esercizio dell’atto di indagine disposto dalla Procura e non dal momento dell’emissione del decreto che dispone l’atto, poiché solo l’esecuzione del prelievo integra una attività potenzialmente lesiva dei diritti fondamentali della persona sul quale il controllo del giudice deve incentrarsi.
Le condivisibili argomentazioni della Corte si stratificano su diversi piani. In primis, emerge la ratio della previsione normativa. Se, come anticipato, l’attività d’indagine, in quanto potenzialmente incidente su diritti costituzionalmente garantiti, è affidata al preventivo controllo giurisdizionale, la riconosciuta possibilità di agire d’urgenza, al ricorrere delle condizioni, pone a valle la necessità di una convalida che, però, è ancorata al rispetto della garanzia giurisdizionale a fronte di una attività che incide sulla libertà personale tutelata dall’art. 13 Cost.
Un ulteriore argomento a sostegno della decisione è individuabile nella disciplina relativa al fermo di indiziato di delitto; l’ art. 390 c.p.p. prevede che entro 48 ore dall’esecuzione del fermo, il gip debba convalidare il provvedimento limitativo della libertà personale. Secondo la giurisprudenza, il termine utile per la convalida decorre dal momento in cui si è verificata effettivamente la privazione della libertà personale, a prescindere dal momento in cui venga formalizzato l’atto di privazione limitazione (Cass., sez. IV, 17 febbraio 2009, n. 21995, secondo cui l’arresto in flagranza di reato si realizza nel momento in cui il soggetto risulta privato della libertà personale; quel momento occorre considerare per verificare la tempestività della richiesta di convalida, essendo irrilevante la circostanza che il verbale di arresto sia stato redatto in un momento successivo).
L’interpretazione è confermata anche indici di natura sistematica; lungo questa prospettiva, infatti, la Corte condivide le argomentazioni sostenute dal pubblico ministero secondo cui non è applicabile la disciplina prevista per le intercettazioni disposte d’urgenza. In questo caso, infatti, la decorrenza, del termine di 48 ore per la convalida, dal provvedimento impositivo discende dalla peculiarità del sub- procedimento dell’intercettazione disposta d’urgenza, ove l’attività di captazione segue, senza soluzione di continuità, il decreto d’urgenza. Ed, infatti, la mancata convalida del provvedimento determina l’interruzione dell’attività intercettativa e l’inutilizzabilità delle intercettazioni già disposte ( Cass., sez. V, 16 marzo 2010, n. 16285).
La Corte, dunque, offre una interpretazione costituzionalmente orientata della previsione; nonostante la diversa decorrenza del termine – nelle intercettazioni a partire dal provvedimento d’urgenza del pm e nell’ipotesi di cui al 359 bis, comma 2, dall’effettiva esecuzione del prelievo, il presupposto che rende indispensabile l’intervento del giudice è lo stesso: l’avvenuta aggressione di un diritto costituzionalmente garantito ( l’art. 15 Cost., nel primo caso, l’art. 13 nel secondo).