Il sequestro probatorio informatico

Maria Giovanna Rutigliano - 29/11/2022

Cass., Sez. VI, 3 ottobre 2022, n. 37349 – Di Stefano, Presidente – Silvestri, Relatore – Cennicola, P.G.

In tema di sequestro probatorio informatico la c.d. copia integrale dei dati contenuti nel contenitore sequestrato non soddisfa affatto l’indifferibile esigenza di porre sotto sequestro esclusivamente le cose pertinenti al reato per cui si procede e che svolga una funzione necessariamente probatoria. Ne deriva che la copia integrale costituisce solo un mezzo, cioè una copia che consente la restituzione del contenitore, ma non legittima in alcun modo il trattenimento dei dati nell’insieme appresi.

Premessa. La sentenza in epigrafe affronta il tema legato al sequestro probatorio di materiale informatico che reca con sé il pericolo, per la peculiare natura dei beni oggetto di sequestro, di un’acquisizione di dati violativa del requisito di strumentalità della res rispetto all’accertamento del fatto di reato e, soprattutto, del principio di proporzionalità. Sempre più frequente è, infatti, il ricorso ad un’acquisizione indiscriminata di dati presenti in sistemi informatici, attraverso la c.d. copia integrale delle informazioni contenute sul supporto informatico, con la conseguenza che l’analisi inerente alla rilevanza probatoria dei contenuti venga effettuata solo in un momento successivo all’acquisizione stessa. Di qui, la necessità, soprattutto nel caso in cui venga effettuato un sequestro “esteso” sui dati digitali che costituiscano il corpo del reato o le cose pertinenti allo stesso, che il giudice motivi specificamente sulla inevitabile differente modulazione della misura alla luce del caso concreto.

Osserva la Cassazione: “Il principio di proporzionalità trova un formidabile applicativo con riferimento ai mezzi di ricerca della prova, idonei ad incidere su beni costituzionalmente tutelati: esso segna il limite entro cui la compressione di un’istanza fondamentale per fini processuali risulti legittima. Il tema attiene al rapporto tra sicurezza e riservatezza, intesa come diritto alla non intromissione da parte del potere pubblico e di soggetti privati nella sfera individuale della persona. Ogni misura per dirsi proporzionata all’obiettivo da perseguire richiede che l’interferenza con il pacifico godimento dei beni trovi un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco”.

E aggiunge: “dunque, valorizzando l’onere motivazionale (..) è possibile tenere “sotto controllo” l’intervento penale quanto al rapporto con le libertà fondamentali e gli interessi costituzionalmente protetti quali la proprietà e la libera iniziativa economica privata riconosciuti dall’art. 42 Cost. e dall’art.1 del Primo protocollo addizionale della Convenzione Edu, come interpretato dalla Corte EDU”.

Il caso. La vicenda trae origine dal ricorso proposto avverso l’ordinanza con cui il Tribunale di Torino aveva confermato il decreto di perquisizione e sequestro emesso nei confronti degli indagati e, altresì, nei confronti di terzi con cui questi intrattenevano rapporti commerciali, in relazione ai reati di corruzione e accesso abusivo ai sistemi informatici.

I terzi, a cui apparteneva una parte dei dati digitali oggetto del sequestro, coinvolti in virtù del rapporto di collaborazione commerciale con gli indagati, avevano proposto ricorso avverso il provvedimento di sequestro deducendo la violazione di legge ed il vizio di motivazione quanto al principio di proporzionalità ed al nesso di pertinenza tra i beni sottoposti a sequestro ed i reati per cui si procedeva. Invero, secondo i ricorrenti, la perquisizione ed il sequestro sarebbero stati disposti in ragione della necessità di verificare l’ipotesi di un’amministrazione di fatto di alcune società che tramite fatti corruttivi avrebbero ottenuto appalti nel settore degli eventi. I ricorrenti sarebbero stati soggetti terzi ed avrebbero avuto, secondo la prospettazione accusatoria, rapporti con gli indagati come loro interlocutori commerciali e ciò li avrebbe resi potenziali fonti di elementi di prova a carico.

Gli indagati, invece, lamentavano la violazione del vincolo di proporzione e del vizio di motivazione in quanto non sarebbero state esposte adeguatamente le ragioni poste a fondamento del vincolo di indisponibilità che di fatto avrebbe avuto una funzione esplorativa. Inoltre, tra i motivi di gravame, si sottolineava come dall’apprensione dei beni sarebbero trascorsi quattro mesi senza che fosse pervenuto alcun chiarimento in relazione al vincolo di pertinenza tra i beni ed i reati, alla durata del vincolo e al tempo necessario per le operazioni di selezione del materiale rilevante. Infine, oggetto di sequestro sarebbero stati documenti ed informazioni tra l’investigatore ed il difensore, rilevanti ai sensi dell’art. 103 c.p.p.

La Sesta sezione della corte di Cassazione, annullando con rinvio l’ordinanza con cui il Tribunale di Torino aveva confermato il decreto di perquisizione e sequestro in relazione ai reati di corruzione e accesso abusivo ai sistemi informatici, ha posto l’accento sulla necessità che l’ordinanza che dispone il sequestro sia corredata da un adeguato apparato motivazionale volto da una parte, a specificare la finalità perseguita per l’accertamento dei fatti e dall’altra, a garantire la legittimità di un sequestro anche “esteso”  sui dati informatici.

Nesso di pertinenza e vaglio sulla proporzionalità.  Il ragionamento del Supremo collegio prende le mosse dal richiamo alla necessità, evidenziata anche dalle Sezioni Unite[1], che il sequestro probatorio, ai sensi dell’art. 42 Cost. e dell’art.1 del primo protocollo addizionale Cedu, anche quando disposto sul corpo del reato, contenga una specifica motivazione sulle finalità perseguite per l’accertamento dei fatti e ciò, al fine di garantire il costante controllo di legalità sull’an e sulla durata del vincolo di indisponibilità della cosa[2]. A fortiori, risulta imprescindibile l’esplicitazione delle specifiche ragioni del sequestro ogni qualvolta questo verta su cose pertinenti al reato ai sensi dell’art.253 c.p.p.[3] In queste ipotesi, infatti, il nesso di strumentalità assurge a canone della pertinenza, assolvendo ad una funzione selettiva dell’utilità del bene rispetto al reato.

In quest’ottica, la corte sottolinea come il nesso di strumentalità del bene rispetto alla condotta criminosa debba presentarsi in modo proporzionalmente accresciuto rispetto al vulnus che lo strumento arreca alla riservatezza del soggetto destinatario del vincolo. In questi termini, la corte evidenzia come il nesso di strumentalità, permeato dei canoni di proporzionalità ed adeguatezza, debba essere valutato dal giudice alla luce del caso concreto. Così ragionando, un sequestro che sia sproporzionato non è ontologicamente illegittimo ma deve essere ricondotto a canoni di proporzione attraverso l’individuazione chiara e precisa delle cose realmente pertinenti al reato.

La questione attiene più che alla restituzione dei beni, alla verifica dell’intrinseca legittimità del sequestro probatorio attraverso un esame rigoroso del rapporto che lega la cosa al reato, dovendosi questo escludersi ogni qual volta sussista un nesso funzionale meramente occasionale[4].

I giudici sottolineano, infatti, come nei mezzi di ricerca della prova il principio di proporzionalità assurga a limite alla compressione legittima del diritto della persona destinataria del vincolo. Detto limite opera solo attraverso una valorizzazione dell’onere motivazionale del giudice che deve individuare e attuare, a fortiori quando il vincolo sia diretto a colpire una più vasta quantità di dati digitali, i c.d. strumenti compensativi di garanzia del soggetto.[5] Questi strumenti compensativi, sottolinea la corte, coinvolgono: la portata del vincolo e la durata ragionevole dello stesso modulata in base a criteri oggettivi; le ragioni per cui si decide di apporre il vincolo su determinati beni, soprattutto quando vengano coinvolte terze persone; la ragione per cui detto vincolo venga apposto in modo onnicomprensivo. Il pubblico ministero ed il Tribunale del riesame hanno, pertanto, l’onere di motivare specificamente su detti profili, ciò al fine di arginare il rischio di sequestri probatori meramente esplorativi e, soprattutto, al fine di evitare che il sequestro probatorio si trasformi in uno strumento volto ad autorizzare l’elusione di garanzie indefettibili per il soggetto[6].

La c.d. copia integrale dei dati digitali sequestrati.  I giudici sottolineano come la c.d. copia integrale dei dati non rilevi in sé come cosa pertinente al reato in quanto si tratta un contenitore di dati indistinti, non sottoposti al vaglio relativo al nesso di strumentalità e, pertanto, non sottoposti alla necessaria operazione selettiva della rilevanza del dato appreso rispetto all’ipotesi criminosa in rilievo.[7] In altri termini, la copia integrale, non soddisfando l’interesse primario ed indefettibile all’individuazione preventiva del dato digitale da sottoporre a vincolo di indisponibilità, altro non è che un contenitore che in alcun modo legittima al trattenimento del dato digitale ivi supportato. L’estrazione della copia integrale di un numero esteso di dati, difficilmente distinguibile dall’originale, fa sorgere l’interesse alla legittimità dell’apprensione e del trattenimento. Il Pubblico Ministero, pertanto, onerato di una specifica motivazione “compensativa” in ordine alle ragioni e alle modalità del sequestro, dovrà: trattenere la copia integrale solo per il tempo necessario per selezionare le informazioni veramente rilevanti ai fini probatori; predisporre un’adeguata organizzazione al fine di svolgere le operazioni di selezione nel più breve tempo possibile; restituire la copia integrale dei dati digitali al termine delle operazioni di selezione. Queste operazioni, a detta della corte, risultano irrinunciabili al fine di operare un accertamento in concreto finalizzato a comprendere se le attività di selezione siano tali da giustificare un differimento della valutazione circa il nesso di pertinenza tra res e reato o si trasformino in una mera elusione delle garanzie personali dei soggetti destinatari del sequestro probatorio[8].

 In applicazione di siffatti principi la Corte ha ritenuto che il provvedimento impugnato fosse deficitario di un adeguato apparato motivazionale avuto riguardo alla circostanza per cui a distanza di molti mesi dall’ordinanza impugnata non fosse ancora chiaro cosa in concreto era sottoposto a sequestro e, pertanto, quale fosse il nesso di pertinenza tra quanto sequestrato ed i reati in contestazione.

[1] Cass. Sez. Un., 19 aprile 2018, n. 36072, in C.E.D. Cass. n. 273548.

[2] Cass. Sez. VI, 12 settembre 2018, n. 56733 in C.E.D. Cass. n. 274781; Cass. Sez. V, 3 novembre 2017, n. 54018 in C.E.D. Cass. n. 27143.

[3] Cass. Sez. Sez. V, 28 maggio 2014, n. 26444, in C.E.D. Cass. n. 259850.

[4] Cass. Sez. II, 16 aprile 2019, n. 28306 in C.E.D. Cass. n.276660; Cass. Sez. VI, 20 gennaio 2017, n. 5845, in C.E.D. Cass. n. 269374.

[5] Cass. Sez. VI, 22 settembre 2020, n. 32265, in C.E.D. Cass. n. 279949.

[6] Cass. Sez. VI, 4 marzo 2020, n. 13165 in C.E.D. Cass. n.279143.

[7] Cass. Sez. VI, 22 settembre 2020, n.34265 in C.E.D. Cass. n. 279949.

[8] Cass. Sez. II, 17 settembre 2021,39187 in C.E.D. Cass. n. 282200.