Il futuro dell’Afghanistan fra nuove incognite ed errori del passato
L’atteso Vertice dei capi di Stato e di governo dei paesi del G20 che si terrà alla fine di ottobre a Roma è ormai imminente. Ciononostante, il Primo Ministro italiano Mario Draghi ha recentemente indetto un summit straordinario dei Grandi della Terra in videoconferenza (il 12 ottobre) incentrato sul “futuro dell’Afghanistan”. All’evento parteciperanno anche autorevoli organismi sovranazionali quali Onu, Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, oltre ad altri Stati come Paesi Bassi, Spagna e Qatar. Il premier italiano, presidente di turno del G20, ha ribadito la necessità di scongiurare una “catastrofe umanitaria” in un Paese che “non ha il sostegno del resto del mondo”. Per tale motivo, Draghi ha auspicato uno sforzo collettivo dei “Paesi ricchi” per “salvare vite umane ”e aiutare il popolo afghano “senza condizionalità”.
Altro tema cruciale è la sicurezza: il Presidente del Consiglio ha inoltre dichiarato di voler “evitare che l’Afghanistan torni a essere un nido del terrorismo internazionale”, lavorando congiuntamente in Europa e investendo maggiormente nel settore della Difesa, in modo da poter far fronte a “mancanze di coperture internazionali” sinora date per scontate; il riferimento è alle attuali politiche statunitensi di contenimento dell’espansionismo cinese puntando maggiormente su altri partner (come Australia e Regno Unito) a discapito dei tradizionali alleati dell’Unione Europea, in particolare Parigi, che ha di recente visto sfumare un accordo per la fornitura di mezzi navali all’Australia a seguito della predilezione di sottomarini USA da parte di quest’ultima.
Per comprendere meglio ciò che ha portato alla riunione d’emergenza, occorre delineare un quadro generale della situazione afghana dagli ultimi mesi a oggi.
La caduta di Kabul nelle mani dei Talebani, a seguito dell’annunciato ritiro delle truppe statunitensi, può aver colto di sorpresa l’opinione pubblica mondiale, ma agli occhi di alcuni analisti esperti erano evidenti talune criticità pregresse che avrebbero fatto prevedere un simile epilogo. Gli USA, esattamente come in Iraq nel 2003, possono affermare di aver vinto la guerra, ma non hanno avuto successo nel nation building, ovvero nella ricostruzione del paese dopo lo smantellamento del vecchio regime. Lo scenario iracheno, con i dovuti distinguo del caso, è piuttosto simile a quello afghano, dato che in entrambi gli Stati il ritiro americano ha lasciato dietro di sé un vuoto di potere colmato in parte dal nemico teoricamente sconfitto: annientando l’esercito iracheno e catturando Saddam Hussein a distanza di pochi mesi dall’inizio dell’operazione Iraqi Freedom, l’allora presidente George W. Bush annunciava soddisfatto la fine della guerra nel paese mediorientale, ma la permanenza dei soldati USA era destinata a protrarsi per molti anni ancora e, cosa più grave, l’esperimento di esportazione della democrazia occidentale in Iraq si sarebbe rivelata un vero fallimento. La prima mossa di Washington fu quella di affidare il governo del paese quasi esclusivamente a sciiti e curdi, storicamente perseguitati dal regime precedente, marginalizzando e sottoponendo a numerose umiliazioni la minoranza sunnita, a cui apparteneva l’ex raìs. Nonostante gli sforzi intrapresi da Washington per formare e finanziare un nuovo esercito iracheno, il malcontento dei sunniti, sfociato in una serie di attacchi contro obiettivi civili sciiti e militari statunitensi, non venne mai sedato completamente. In particolare, la provincia di Al-Anbar, nell’ovest del paese, divenne un teatro di frequenti scontri tra i guerriglieri e le forze di occupazione. Dalla stessa provincia, roccaforte sunnita, ebbe origine ciò che divenne noto con il nome lo “Stato Islamico in Iraq e Levante” (ISIL), i cui miliziani riuscirono a prendere il potere a distanza di soli tre anni dal ritiro USA: il vuoto lasciato dai militari occidentali e la scarsa preparazione dell’esercito regolare, il quale si ritirò progressivamente senza neanche combattere, favorirono l’ascesa dei famigerati jihadisti che esercitarono il controllo sul territorio fino al 2017, anno in cui cadde l’ultima roccaforte del cosiddetto “Califfato” in Iraq (bisognerà attendere ancora due anni per la sconfitta definitiva in Siria).
L’Afghanistan, invece, presenta un quadro ancor più complesso: gli USA invasero il paese nel 2001, a seguito del respingimento dell’ultimatum di Bush ai Talebani in cui venne loro chiesto di abbandonare Osama Bin Laden, il leader di Al-Qaeda ritenuto responsabile degli attacchi dell’11 settembre dello stesso anno e da tempo rifugiatosi tra le montagne dell’Hindukush (impervia regione montuosa afghana) sotto la protezione degli “studenti coranici”. Le ragioni per cui il mullah Omar, guida spirituale e politica del movimento talebano, scelse di ignorare le richieste americane erano dettate da un paio di fattori non trascurabili: per prima cosa, gli islamisti afghani ritenevano un disonore dialogare e scendere a patti con i “miscredenti” e, in aggiunta a ciò, la protezione di Bin Laden rientrava nei doveri morali di ospitalità previsti dal Pashtunwali, il codice consuetudinario di origine pre-islamica alla base dello stile di vita dei Talebani. La risposta USA fu, dunque, una serie di bombardamenti aerei sull’Afghanistan cui seguì l’invio di truppe di terra, in particolare i marines. Dopo pochi mesi, i Talebani abbandonarono Kabul e gli Americani consolidarono gradualmente il proprio controllo sul territorio avanzando verso le altre città principali fino alla presa di Tora Bora, ultima roccaforte talebana. Nel frattempo, Bin Laden si rifugiò oltre il confine pakistano, dove verrà eliminato dai Navy Seals con un’operazione speciale dieci anni dopo. Per contrastare le insurrezioni talebane, le truppe USA vennero affiancate da una forza internazionale di sicurezza (ISAF) della NATO, come parte dell’Operazione Enduring Freedom, mirante al mantenimento della stabilità nel paese. Nonostante il ritiro delle forze talebane e il successo delle operazioni militari occidentali, nel caso dell’Afghanistan sarebbe inesatto persino dire che gli Stati Uniti abbiano vinto la guerra; oltre a una campagna militare durata vent’anni, la rapida riconquista del paese da parte dei Talebani ha di fatto sancito il fallimento americano. Nell’arco di poche settimane, i miliziani hanno ripreso il controllo del paese e costretto all’esilio il presidente Ghani, assistendo alla resa di un esercito afghano numericamente superiore e meglio equipaggiato, ma per nulla motivato e profondamente deluso dalla corruzione dilagante del governo e dal “tradimento” rappresentato dall’abbandono degli Americani. Non va dimenticato, tra l’altro, il ruolo fondamentale degli “Accordi di Doha” del 2020, siglati dai vertici del movimento talebano e dall’amministrazione Trump(con la mediazione del Qatar, in qualità di paese ospite) in cui le parti si impegnavano a rinunciare alle ostilità garantendo il ritiro delle truppe straniere in cambio della rinuncia al sostegno al jihadismo transnazionale e la lotta contro la minaccia comune rappresentata da IS K, la branca del sopracitato sedicente “Stato Islamico”, ma nella sua variante centro-asiatica (provincia del Khorasan).Si tenga conto, dunque, che i due gruppi fondamentalisti hanno una visione significativamente diversa dei concetti di jihad e spazio pubblico: i Talebani nascono come un movimento patriottico ispirato dalla corrente islamica conservatrice “Deobandi” (dal nome della città del Subcontinente Indiano da cui partì la lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna). L’obiettivo dei mullah è quello di instaurare un emirato islamico entro i confini dell’Afghanistan, essendo di fondo anche dei fieri pashtun, il gruppo etnico maggioritario del paese storicamente opposto agli hazara (discendenti dei Mongoli e di tradizione sciita). Per tale motivo, i Talebani non condividono le ambizioni di instaurare un Califfato transnazionale e ispirato dai princìpi del Salafismo jihadista dei seguaci di IS K, i quali accusano i primi di essere addirittura troppo dialoganti nei confronti dell’Occidente. Non è un caso che gli attacchi dinamitardi di agosto contro l’aeroporto di Kabul, preso d’assalto dai civili in fuga, fossero diretti sia agli “invasori in fuga” americani che ai nuovi governanti “moderati”.
Come ultimo fattore di analisi non va dimenticato il ruolo chiave dei paesi limitrofi e degli altri grandi attori della regione. A cominciare da Islamabad, i cui vertici dei servizi segreti (ISI) sono subito accorsi a Kabul a pochi giorni dalla conquista talebana. Pur negandolo ufficialmente, il Pakistan è considerato da sempre un sostenitore del movimento, tanto da essere uno dei pochissimi Stati a riconoscere il regime talebano negli anni ’90, insieme ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Proprio il regno Saudita è stato citato da Draghi come attore di influenza nella regione, in qualità di paese musulmano membro del G20 (insieme alla Turchia). Quasi sorprendentemente, Riyadh non ha ancora riconosciuto il nuovo governo afghano e ha auspicato la formazione di “un governo che tenga conto degli interessi e del benessere del popolo afghano senza interferenze esterne”. Ovviamente la preoccupazione dei Sauditi rimane Teheran, che ha sempre sostenuto e accolto i profughi della minoranza sciita hazara, ma non è escluso che abbia instaurato un’alleanza segreta con i Talebani in funzione antiamericana. È ormai piuttosto probabile che l’influenza saudita sia stata ridimensionata dal Qatar, in quanto il piccolo emirato del Golfo, oltre ad aver mediato significativamente tra le parti belligeranti (come sopra ricordato), ospita da tempo un ufficio dei Talebani a Doha e, al tempo stesso, ha contribuito all’evacuazione di civili americani in fuga da Kabul. Infine, non si può non menzionare Russia e Cina, dato che entrambe le potenze sono state le prime a stabilire un dialogo con il nuovo regime de facto di Kabul: Pechino e Mosca hanno l’intenzione sia di colmare il vuoto lasciato dagli Stati Uniti che di assicurarsi una stabilità interna per quanto riguarda le minoranze musulmane desiderose di un’indipendenza dal governo centrale (come gli Uiguri dello Xinjiang) e contrastare la minaccia jihadista che preoccupa soprattutto il Cremlino.
Per concludere, le sfide che il summit straordinario si trova ad affrontare sono molteplici: il contrasto al terrorismo internazionale, la salvaguardia dei civili afghani (in particolare donne e bambini) e la stabilità regionale sono tutte prerogative che richiedono sforzi collettivi e azioni coordinate per evitare di commettere gli errori del passato e scongiurare un’ecatombe. Il “Grande Gioco” che da secoli vede contrapporsi in quella stessa area le diplomazie e i servizi delle maggiori potenze del mondo è tutt’altro che chiuso.