Detenzione materiale pedopornografico e archivio virtuale. A proposito Cass. Pen., Sez. II, 19 gennaio 2023, n. 4212

Francesca Del Gaudio - 01/03/2023

Il 24 marzo 2021, il Giudice per le indagini preliminari di Napoli condannava ad un anno di reclusione ed euro 800,00 di multa un soggetto relativamente al delitto di cui all’art. 600-quater, primo comma, c.p., per aver procurato e detenuto consapevolmente materiale pedopornografico, consistente in più di quattromila file, dei quali più di mille ritraevano bambine, in età compresa dai 3 ai 14 anni, intente in attività di autoerotismo e attività sessuali con maggiorenni.

La Corte d’appello di Napoli, nel maggio 2022, respingeva l’impugnazione e il soggetto proponeva, così, ricorso davanti al Giudice di legittimità per cinque motivi specifici, che venivano dichiarati tutti infondati.

Oltre a numerosi vizi di motivazione, il ricorrente lamentava la violazione dell’art. 521 c.p.p. ritenendo mancante la correlazione tra accusa e sentenza: la condotta contestatagli non era mai stata accertata, mentre la responsabilità era affermata relativamente alla detenzione di altro materiale non descritto nell’imputazione e conservato in luogo diverso da quello ivi indicato, violando così il suo diritto di difesa.

Lamentava, altresì, l’errata applicazione dell’art. 131-bis c.p.e un ulteriore vizio di motivazione – sostenendo che il rigetto dell’applicazione di tale causa di non punibilità si fondava sulla gravità del reato in astratto e non anche sulle caratteristiche della condotta concretamente posta in essere. La Corte di Cassazione affermava, però, che relativamente alla fattispecie in esame si teneva conto – oltre che del numero delle immagini e video detenuti dal ricorrente – anche del metodo di archiviazione dei file allo specifico scopo di eludere eventuali controlli, indicativo di sistematicità e organizzazione della condotta. Presupposti non idonei, come già evidenziato dai giudici di merito, per riconoscere l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p.

Il soggetto denunciava anche l’errata applicazione degli artt. 133 e 175 c.p riguardo alla determinazione del trattamento sanzionatorio, al diniego della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e della mancata conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, ritenendo, nello specifico, contraddittorio quanto esposto nelle sentenze di merito relativamente all’occasionalità della condotta e alla misura della pena, vicina al massimo edittale, con illogica esclusione dei benefici suddetti.

Anche questo motivo veniva dichiarato manifestamente infondato poiché volto alla censura di valutazioni di merito e a prospettare violazioni di legge e vizi di motivazione non dedotti in precedenza e, pertanto, non deducibili attraverso lo strumento del ricorso in cassazione. La Corte d’appello negava, correttamente, la non menzione alla luce delle modalità con cui la condotta era stata realizzata, della sua reiterazione, e del giudizio negativo sulla personalità dell’imputato idonea a giustificare, altresì, la determinazione della pena in misura superiore al minimo edittale.

Di specifico interesse, relativamente alla pronuncia in esame, è il primo motivo di impugnazione attraverso il quale il ricorrente lamentava che fosse stata ritenuta sussistente la fattispecie di reato in esame pur mancando gli elementi essenziali della condotta punibile; e in particolare, per aver ritenuto sufficienti, ai fini della sua configurabilità, il rinvenimento, in uno dei dispositivi sequestrati, di 18 tracce di navigazione verso un determinato sito Internet.

La Corte di Cassazione riteneva non fondato anche tale motivo di impugnazione ed il fatto che fosse stata esclusa la circostanza aggravante dell’ingente quantità del materiale pedopornografico; inoltre non escludeva e non contrastava con l’affermazione di responsabilità per la detenzione di tutte le immagini presenti nell’account riferibile all’imputato, essendo univoco l’accertamento della disponibilità di queste immagini ed essendo irrilevante il numero di accessi.

Pertanto, risultavano indubbiamente infondate le doglianze sollevate attraverso tale motivo di ricorso, essendo stata accertata la detenzione da parte del ricorrente di video ed immagini di contenuto pedopornografico in archivi di storage nella sua esclusiva disponibilità e consultabili da lui incondizionatamente, senza limiti, e mediante accesso con proprie credenziali.

La configurabilità del reato contestato è stata ritenuta corretta dalla Suprema Corte, essendo compresa nel concetto di detenzione anche «la disponibilità di file accessibili senza limiti di tempo e di luogo in un archivio virtuale consultabile, senza restrizioni, mediante credenziali di autenticazione in uso esclusivo o condiviso tra il titolare e altri utilizzatori, in modo da poterne ampiamente disporre e da compiere una vasta gamma di operazioni».